Come abbiamo visto nei precedenti articoli, il primo dedicato al tasso di natalità e al tasso di fecondità totale e il secondo alla piramide dell’età, cercare di capire la demografia di una popolazione non è affatto semplice. Ci sono moltissime variabili e dati da prendere in considerazione, che dipendono da così tanti fattori che, a volte, è addirittura difficile riuscire a delinearli tutti.
Detto questo, un dato fondamentale nel riuscire a comprendere la demografia di un Paese è certamente quello legato ai flussi migratori, intesi sia come immigrazione che emigrazione.
I flussi che spingono gli abitanti di una nazione a lasciare i propri territori di provenienza, spesso per sempre, contribuiscono a mostrare il livello di forza e di "salute" di uno Stato. Infatti, sono simbolo di come questo venga percepito come un luogo di opportunità, ed è per questo che i numeri legati all'immigrazione e all'emigrazione sono fondamentali anche per le decisioni economiche e politiche.
Si tratta chiaramente di un argomento molto vasto, che sarebbe difficile affrontare nel dettaglio se dovessimo analizzare la situazione a livello mondiale. Per questo, in questo articolo ci focalizzeremo sulle fasi che hanno caratterizzato prima l'emigrazione e poi l'immigrazione in Italia, in modo da poter avere un quadro più ristretto, e avere dei chiari punti che aiutino a capire come questi due fattori abbiano influenzato la storia del nostro Paese nel corso dei decenni.
Nello scacchiere mondiale l’Italia, per molto tempo, ha rappresentato un luogo di emigrazione, più che immigrazione. Per comprendere l’ampiezza di questo fenomeno, si stima che dal 1876 al 1976 partirono oltre 24 milioni di italiani, per varie destinazioni tra cui il Sud America, gli Stati Uniti d’America oppure altre nazioni europee.
Questo fenomeno è stato così ampio e ha toccato il nostro Paese in modo così sistemico da portare gli storici a dividerlo in tre diverse fasi: la grande emigrazione, la migrazione europea e la nuova emigrazione, come puoi vedere nel grafico qui sotto accanto al saldo immigratorio.
Con l’Unità d’Italia, nel 1861, gli italiani cominciarono ad emigrare in modo massiccio. All’inizio, fino al 1900, il fenomeno toccò soprattutto le regioni del Nord: Veneto, Friuli-Venezia-Giulia e Piemonte, che fornivano da sole il 47% dei migranti. In seguito questo primato passò invece all’Italia meridionale, soprattutto Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, per terminare poi con l’ascesa del fascismo. In questo periodo storico l'immigrazione verso il nostro Paese era praticamente nulla.
Le motivazioni di questo primo flusso migratorio sono molte, ma in questo caso voglio ricordarne principalmente tre.
La prima è legata alla povertà: al momento dell’unificazione moltissimi italiani vivevano in condizioni di assoluta miseria, malasanità, e l’Italia era ancora un Paese prevalentemente agricolo, con un altissimo numero di contadini. Le terre da lavorare, però, scarseggiavano, e quindi questo fu uno dei primi motivi che diede inizio alla migrazione.
La seconda motivazione è più politica: dopo l’unificazione fuggirono ad esempio molti anarchici, che non erano ben visti dal nuovo governo nazionale.
La terza è di nuovo legata all’Unità d’Italia e spiega (anche se solo parzialmente) il motivo per cui la migrazione si spostò solo in seguito verso le regioni meridionali. Difatti, l’unificazione contribuì a migliorare le condizioni di vita degli italiani, soprattutto delle regioni del Sud, che per la prima volta poterono avere maggiore accesso a ospedali, scuole, cibo. Questo provocò un’aumentò della natalità, e le nuove generazioni furono spinte all’emigrazione in quanto, anche se le condizioni di vita erano migliorate, la povertà era ancora forte.
A migrare in questa fase furono soprattutto maschi adulti, non scolarizzati, che abitavano nelle campagne, e le mete erano principalmente l’America meridionale e settentrionale, oppure la Francia. Si stima che, tra il 1861 e l’ascesa del fascismo, gli italiani a lasciare la nostra penisola furono circa 9 milioni.
Questa seconda migrazione ebbe inizio con la fine della Seconda Guerra Mondiale, e si concluse intorno agli anni ‘70. Anche in questo periodo, l'Italia non era ancora una nazione interessata dall'immigrazione, se non legata a eventi straordinari, come l'esodo istriano.
Le cause di questa nuova migrazione furono la necessità di dirigersi verso altre nazioni europee, meno piegate dalla guerra e dalla crisi rispetto all’Italia, per poter lavorare. Le mete furono soprattutto il Belgio, la Svizzera, e poi la Germania e la Francia, e una delle differenze rispetto alla prima è che, per i migranti, erano considerate come mete “temporanee”. La volontà era, infatti, di recarvisi solo per trovare un impiego più redditizio, per poi tornare in patria, ed infatti il ritorno in Italia dei migranti è uno dei fenomeni che si vedrà negli anni ‘70.
Le regioni che più sperimentarono questa migrazione furono quelle meridionali (Sicilia, Calabria, Abruzzo e Puglia), ma anche Veneto e Emilia-Romagna.
Come abbiamo detto, dagli anni ‘70 l’Italia sembrò aver modificato la sua posizione, passando da luogo di emigrazione a luogo di immigrazione, sia per gli italiani di ritorno in patria sia per gli stranieri (vedremo più avanti nel dettaglio questo fenomeno). Dopo la crisi del 2007, però, anche se l'immigrazione ha continuato ad essere presente ma in calo rispetto ai decenni precedenti, gli italiani hanno di nuovo cominciato ad emigrare, però in un numero molto minore rispetto alle prime due migrazioni.
Si tratta di un fenomeno molto diverso rispetto ai precedenti, soprattutto per quanto riguarda chi lo interessa: per la prima volta ad emigrare, infatti, sono i giovani, soprattutto laureati. Rinominata anche “fuga di cervelli”, i motivi che spingono gli italiani a trasferirsi in Germania, Regno Unito, ma anche Canada o Stati Uniti d’America sono tutti strettamente legati alla crisi economica.
Le regioni di provenienza in questo caso sono molto omogenee, e per la prima volta si vede in elenco anche la Lombardia, che non era stata interessata durante i primi due flussi in quanto regioni storicamente molto ricca.
Per quanto ridotta rispetto alle prime due, in ogni caso si stima che dal 2009 al 2018 il numero di emigrati italiani sfiori le 500 mila unità. Il costo per l’Italia? Viene considerato pari a circa 16 miliardi di euro (oltre 1 punto percentuale di PIL): questo valore è dovuto non solo dal fatto, come abbiamo detto, che un gran numero di questi nuovi migranti è laureato, ma soprattutto al fatto che sono per la maggior parte giovani. E questa “fuga” va ad influire, ovviamente, in modo negativo sulla bassa natalità del nostro Paese, che continua ad invecchiare e non viene visto dalle nuove generazioni come un luogo dove possono avere opportunità di realizzarsi.
Come abbiamo visto, l’emigrazione ha giocato un ruolo fondamentale sul saldo totale della nostra nazione. Soprattutto oggi, dove è uno dei motivi che stanno rendendo l’Italia un Paese sempre più vecchio. Un altro ruolo fondamentale gioca però l’immigrazione, che dagli anni ‘70 a pochi anni fa ha contribuito prima ad aumentare la popolazione italiana e poi a mantenerla stabile, ma che oggi è in calo.
A dare inizio all’immigrazione in Italia fu, banalmente, in seguito al miracolo economico degli anni ‘60. Questo fenomeno non solo provocò il ritorno in patria di molti emigrati italiani che, come abbiamo visto, si erano recati solo temporaneamente all’estero, già con la volontà di ritornare, ma anche l’arrivo di stranieri da altre nazioni. Il primo saldo migratorio positivo (101 ingressi per 100 espatri) si ebbe nel 1973, anche se ancora fortemente influenzato dal ritorno degli italiani all’estero.
L'immigrazione ha continuato a crescere negli anni ‘80 fino agli anni ‘90, tanto che si passò da 321 mila stranieri nel 1981 a 625 mila nel 1991. L’aumento dei flussi fu dovuto a vari fattori, tra cui il crollo del blocco orientale: l’immagine della nave Vlora che attracca a Bari l’8 agosto del 1991, carica di immigrati albanesi, è simbolo della prima immigrazione di massa con cui l’Italia dovette avere a che fare.
Come accennato negli articoli precedenti, dal 1993 l’immigrazione è stata la sola responsabile del crescere della popolazione italiana, andando a tamponare il continuo calo della natalità. Questo, almeno, fino al 2015.
Gli immigrati contribuiscono, inoltre, ad abbassare l’età media del nostro Paese: nel 2010, gli stranieri residenti in Italia risultavano più giovani dei cittadini italiani: l’età media era infatti di 32,5 anni contro 44,3. Si tratta della quarta comunità straniera più giovane tra le nazioni europee contro la seconda popolazione nazionale più vecchia (dopo la Germania).
Questi due fattori, cioè la crescita della popolazione del Paese e l'abbassamento dell'età media, sono solo due delle tante motivazioni che rendono l'immigrazione così preziosa per una nazione, in grado di portare valore e ricchezza allo Stato.
Infine, c’è da sottolineare come l’immigrazione non sia divisa in modo omogeneo tra le differenti regioni italiane, anzi. Nel 2019 il 33,8% degli stranieri risiede nel Nord-ovest, il 24,3% nel Nord-est, il 25,0% nel Centro, il 12,2% nelle regioni del Sud e il 4,8% nelle isole. Su un totale di 5 milioni di stranieri in Italia (pari all’8,4% della popolazione totale), più della metà di essi (oltre 2.6 milioni) si trovava in Lombardia, Lazio, Emilia-Romagna e Veneto.
Inoltre, gli stranieri tendono a stabilirsi maggiormente nei centri urbani rispetto alle zone di campagna, arrivando a superare il 20% della popolazione italiana (nel 2020) nelle province di Milano e Prato.